A Calciopoli arriva il primo pentito

Un indagato ha raccontato tutto. Ma non è molto. E nascono anche dubbi sull'inchiesta. E sulle probabili penalizzazioni.

di  Giacomo Amadori 1/6/2006

Come ogni scandalo che si rispetti anche Calciopoli ha il suo primo (quasi) pentito. È il più giovane tra gli indagati e per questo uno dei più spaventati. Ha 28 anni e, prima del terremoto pallonaro, lavorava alla Commissione nazionale arbitri di serie A e B della Federcalcio.
Martino Manfredi, nei giorni scorsi, ha iniziato a collaborare con le forze dell'ordine, parlando dei retroscena e dei meccanismi di controllo sui sorteggi arbitrali. Una piccola fessura nel muro di silenzio che gli inquirenti stanno cercando di intaccare, con grande difficoltà.
Infatti gli interrogati discettano sul «sistema generale» e meno volentieri scendono nei particolari. Neppure l'ex designatore arbitrale Paolo Bergamo, che per i cronisti era avviato sulla strada della loquacità, ha aggiunto notizie a quelle che i magistrati già conoscevano.
Uno dei verbali più interessanti è ritenuto quello del presidente del Genoa Enrico Preziosi: si è soffermato sull'operato della giustizia sportiva che un anno fa ha condannato per illecito la sua squadra alla retrocessione. Ha denunciato presunti torti e pressioni subiti, ha attaccato l'ex presidente della Federcalcio Franco Carraro, l'ex capo dell'ufficio indagini Italo Pappa e i giudici della Caf.
Ha consegnato un dossier con alcuni «pizzini» irridenti, quelli che, secondo le sue accuse, i magistrati sportivi scrivevano mentre lo giudicavano. Ma pure Preziosi quando è arrivato il momento di parlare dei rapporti con Moggi ha preferito sfumare i toni. È stato, invece, ironico l'allenatore del Milan Carlo Ancelotti, che ha ricordato di essere stato l'unico a non vincere nulla nella Juve guidata dall'ex direttore generale bianconero.
Catenaccio pure tra gli arbitri. Massimo De Santis, per esempio, ha scelto la via del silenzio. Senza sorprendere gli inquirenti: gli indagati si presentano agli interrogatori conoscendo parte degli elementi contro di loro, dopo la diffusione delle informative dei carabinieri.
Inoltre, chi avrebbe voglia di parlare, come Zdenek Zeman o l'ex presidente dell'Ancona Ermanno Pieroni, non ha aggiunto nulla a quanto aveva già dichiarato a giornali e tv. E così uno dei pochi interrogatori giudicati utili è stato quello del dipendente della Figc Manfredi, che ha svelato il sistema dei bussolotti.
Le palline che all'epoca del sorteggio arbitrale contenevano i cartigli con le partite e i nomi dei direttori di gara erano riconoscibili a causa dell'usura, così gli ex designatori Pierluigi Pairetto e Bergamo potevano abbinare a una certa sfida l'arbitro prescelto.
Il metodo non perdeva efficacia neppure quando a estrarre il bussolotto dall'urna con l'indicazione del match era una terza persona, per esempio un cronista: i designatori aspettavano qualche istante e quindi sorteggiavano, dall'altra urna, la giacchetta nera predestinata all'incontro.
La riffa poteva essere pilotata anche attraverso altri sistemi, come quello delle cosiddette griglie (la suddivisione in varie fasce di incontri e arbitri) che riduceva al minimo il rischio della casualità.
Per gli inquirenti, le rivelazioni di Manfredi non valgono moltissimo e la mancanza di collaborazione di indagati e testimoni durante gli interrogatori sta ponendo un problema: come dare più peso alle informative dei carabinieri con riscontri testimoniali e prove documentali.
Le 1.600 pagine di accuse stilate in quasi un anno di lavoro dai carabinieri hanno tuttavia già prodotto un risultato innegabile: una pressione mediatica che ha portato alle dimissioni di tutti i vertici del mondo del calcio. Eppure, gli investigatori sono costretti a riconoscere che i risultati dell'indagine non sono inattaccabili.
Troppe parole, ma soprattutto troppi aggettivi hanno reso vulnerabile la pietra angolare dell'inchiesta. Titoli a effetto come «Il controllo del Palazzo», «L'asservimento della macchina amministrativa» o «I tentacoli nell'apparato della sicurezza» hanno tolto la doverosa asciuttezza alla ricostruzione.
Solo nel primo dossier l'estensore del documento, il maggiore dei carabinieri Attilio Auricchio, usa 16 volte l'aggettivo «allarmante» e dieci volte «inquietante». Termini che ritornano anche nella seconda informativa. E quando si parla dell'associazione di procuratori Gea World sfuggono termini come «cupola» e «affiliati». Una scelta linguistica che tradisce un impeto accusatorio inconsueto.
Quanto al contenuto, il primo dossier prepara l'accusa di frode sportiva e associazione per delinquere, ricostruisce modi e partecipanti al «sodalizio criminale». Il secondo, scritto sette mesi dopo il primo, dovrebbe elencare gli episodi di reato annunciati nel precedente. In realtà diventa un potpourri di notizie e nel calderone finisce persino l'ex ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu che chiede un «aiutino» per la sua Torres, che con il campionato di serie A oggetto dell'informativa non ha nulla da spartire.
Una delle perplessità maggiori le suscita il capitolo che si riferisce alle presunte «Collusioni con la questura di Torino e Roma». Il titolo lascia intuire una situazione di connivenza tra la polizia e il sistema moggiano.
In realtà leggendo le notizie raccolte dai carabinieri si scopre che il direttore generale della Juve, in cambio di biglietti e magliette, otteneva piccoli favori da tre-quattro agenti o ispettori (su un totale di oltre 7 mila poliziotti che operano nelle due questure). Per i magistrati è un po' poco per mostrare tanta nettezza nelle conclusioni investigative.
Ma il vero paradosso è la terza informativa, quella che monitora le telefonate di Leonardo Meani, collaboratore del Milan con il ruolo di addetto all'arbitro. Al contrario delle prime due non è un'«informativa di reato a carico» di qualcuno e non contiene le due telefonate per cui Meani è stato indagato.
È quasi un allegato che dovrebbe dimostrare «l'esclusività del potere» moggiano «al quale non corrisponde un contraltare». Insomma la dimostrazione dell'inutilità di Meani. Poi, però, il documento cambia direzione e prende di mira l'amministratore delegato del Milan Adriano Galliani per i rapporti con Meani. Fra le righe spunta la presunta prova di colpevolezza del dirigente rossonero: «Approfitta della telefonata per chiedere a Meani se abbia parlato con i designatori».
Non molto per quello che dovrebbe essere uno dei «burattinai» del calcio italiano. Poi il rapporto sottolinea la preparazione di un incontro riservato tra Galliani e l'arbitro Pierluigi Collina dimenticando di scrivere che quel rendez-vous non c'è mai stato e che i due non si contattano neppure per telefono. Inoltre, sembra che il famoso «dossier» dell'arbitro Gianluca Paparesta non sia altro che una newsletter per la promozione di un carburante ecologico, il biodiesel.
Le divergenze di opinione tra investigatori e pm sono confermate anche nell'elenco dei 41 indagati stilato dalla procura di Napoli: tiene conto solo parzialmente dei 58 nomi a carico dei quali è stata preparata l'«informativa di reato». I pm hanno eliminato dalla lista degli «avvisati» 26 persone che i carabinieri avevano messo nel mirino: dall'avvocato Luigi Chiappero, legale storico della Juventus, al giornalista Tony Damascelli.
Dunque le informative che hanno fatto detonare lo scandalo potrebbero essere il punto debole dell'inchiesta sul calcio. Presto i legali, dato il clima di dissenso con i carabinieri, potrebbero chiedere la trascrizione integrale delle centinaia di migliaia di telefonate che, necessariamente, sono state accantonate dai militari. Con il rischio di paralizzare la fase istruttoria. E c'è chi già scommette che le penalizzazioni davanti alla giustizia sportiva saranno meno eclatanti di quelle pronosticate da certi giornali e tv.

Fonte www.panorama.it

Indietro